Elemire Zolla
in "Uscite dal mondo" (Adelphi, 1992)
In molte tradizioni è di prammatica esporre gli archetipi
supremi in forma domestica, puerile. Perciò l’Europeo non capì
la profondità delle favole che si raccontavano fra le tribù
d’Africa e d’America, soltanto ora svelate per sistemi
metafisici e cosmogonici.
Si ricorre all’occultamento del sacro sotto cenciosi,
impolverati ammanti perché null’altro consente altrettanto bene
di sfuggire alla profanazione. E questa la formula che ne
garantisce la conservazione più sicura, ne affida la custodia
alle vecchie e ai bambini. E un trucco meraviglioso perché
massimo ostacolo a una comprensione reale e operativa della
sapienza trascendente e dunque ostacolo principale dinanzi
all’entrata nel regno degli archetipi è la superbia
intellettuale. Mai il superbo si chinerà a scrutare con amore
una realtà dimessa e nemmeno giungerà mai a sospettare che essa
possa essere deliberata, come l’abbigliamento da pitocco del
califfo Harun ar-Rashíd nelle Mille e una notte.
Questo, del travestimento nella più modesta tra le forme, è un
archetipo fra i maggiori. In verità è nientemeno che l’archetipo
stesso dell’Incarnazione.
Lo Harun ar-Rashid del novellino arabo, il principe in costume
di mendico, ha origine nella notte della fiaba arcaica e
iniziatica: è il rospetto-principe, ancor presente nel duca
shakespeariano di Misura per misura.
Questa la chiave che c’introdurrà nel Pinocchio.
L’aspetto è di un raccontino quasi quasi in vernacolo, con
ammicchi e capitomboli da circo, pervaso di popolaresca
bonarietà.
Passeranno oltre i superbi. O faranno mostra del loro vezzo
preferito, sociologico o psicoanalitico che sia, accanendosi
sulla moralità borghesotta che a loro parrà l’essenza
dell’intrattenimento.
Era ciò che da loro si voleva.
Resterà il pubblico degli innocenti.
Gli unici ai quali valga la pena di schiudere i misteri. In
vernacolo, ridendo conviene esporre le cose più inaccessibili.
Lo sapeva Tolstoj. Il suo Pierre Bezuchov frequenta esoteristi
assai addottrinati, ma la sapienza gli sfugge fino al giorno in
cui gliela mostra a rozzi e buffi proverbi e a gesti il
contadino Platon Karataev.
Le figure eterne sono in buona parte presenti in Pinocchio.
Quella del burattino simbolico innanzitutto.
Quella della donna beatificante o Vergine Sapienza: la fatina
collodiana continua la tradizione di Beatrice e di Laura con
sommo onore.
Quella degli aiutanti e degli avversari soprannaturali che
accompagnano o ostacolano il cammino dell’iniziazione.
Quella del prologo nei cieli. Il demiurgo in molte tradizioni è
un falegname e marionettaio. In sanscrito si dice sutradhara
che vuol anche dire regista o architetto. La miseria e
buffonaggine ovvero la caduta del mondo proviene in molte
tradizioni arcaiche da un contrasto fra il Demiurgo cosmico e il
Padre Celeste, narrato anche nelle cosmogonie gnostiche.
Una delle versioni più squisite è il preludio del Pinocchio.
L’archetipo della morte e della rinascita quasi dappertutto e
sempre torna a vestirsi nella forma simbolica d’un
inghiottimento nel ventre della balena o nelle sofferenze
asinine o nel serpente verde che atterrisce, ma ha il segreto
della rinascita.
Oso proporre che quest’ultimo simbolo fosse suggerito a Collodi
dalla versione che ne diede Goethe nella fiaba inclusa in Discorsi
di emigrati tedeschi. Anche il serpente verde di Goethe
deve fatalmente schiattare ed è contornato di fuochi fatui come
in Collodi da lucciole. L’allegoria goetheana concerne i misteri
alchemici e monetari dell’oro. La moltiplicazione dell’oro
tangibile, della moneta, non è un fatto di natura, ma una
suggestione metafisica.
Questo, in soldoni, l’insegnamento goetheano. Uguale è quello
del Collodi.
Il serpente verde è il vero custode della trasmutazione e della
rinascita. È un simbolo immemoriale. Compare in Claudiano,
simbolo dell’eternità nell’antro della Natura, nonché di tutti i
terrori che attendono chi voglia liberarsi dai limiti e dai
ceppi, rinascere, appunto.
Che Pinocchio proprio di questo tratti, Collodi fa
dichiarare al suo burattino quando esso si deve acconciare a
fare il cane da guardia: "Potessi rinascere un’altra volta".
Non può pertanto Pinocchio sfuggire alle classiche prove
dell’acqua col naufragio, del fuoco presso il pescatore,
dell’aria durante il volo del colombo o Spirito.
Non credo si trovi un episodio del Pinocchio che non si
possa rintracciare in quel curioso mondo che è l’iconografia
alchemica.
Il paese dei barbagianni?
E quello che si attraversa per andare nell’Eterna Sapienza,
c’informa la prima vignetta dell’Amphitheatrum eternae
sapientiae di Khunrat. Il campo di cui favoleggiano il
gatto e la volpe? Che Collodi chiama proprio il "campo
benedetto" o "campo dei miracoli"? Lo troverete nel Mutus
liber, il capolavoro dell’alchimia secentesca francese.
E la formula per far crescere gli zecchini? È esattamente quella
per rigenerare l’oro in alchimia. Due secchi d’acqua di fontana
e una presa di sale: l’acqua della fons juventutis e un
grano di sale della sapienza. Quello stesso sulla cui
fabbricazione c’intrattiene Goethe in Poesia e verità.
Pinocchio peraltro non è soltanto una
rassegna di figure squisitamente ed esotericamente simboliche,
ma contiene suggerimenti sottili su come si opera per liberarsi
da se stessi, dalla propria natura di burattini utopisti,
ricercatori di soluzioni umane, per rompere i propri limiti.
Il primo suggerimento è frequentare i morti. Una morta. La
fatina è una morta. È la femminilità eterna, epurata d’ogni
traccia temporale. È l’idea della vergine matrice del cosmo come
forza che dà nutrimento e forma al cosmo, plasmando, misurando,
riparando.
Per liberarsi dalla presa delle forze cosmiche vedendone la fine
e il principio e la ragione, la matrice che le comprende,
Collodi dà un suggerimento: "Imparare a vedere la fata nel
sogno".
Non diversamente Dante o Petrarca. Non diversamente Apuleio. Che
altro distingue Lucio uomo da Lucio asino se non la consuetudine
di vedere Iside in sogno?
A chi volesse saperne di più da un moderno, suggerirei di
leggere le novelle di William Butler Yeats. Perché di operazioni
interiori precise si tratta, non di frasi graziose.
Ma come sapere se chi accenna a tali cose - che si possono
chiamare, con proprietà d’aggettivazione, abissali -parla per
abbondanza di cuore e per esperienza?
Conosco un solo reagente.
Che dal tesoro del cuore estragga vibranti di vita, nuovi,
estatici simboli degli eterni archetipi, simboli che lascino
stranamente trasognati, come dei déjà vu, come delle visioni
intraviste e irritrovabili, chiaramente non di questo mondo.
Ebbene: quando mai altri hanno come il Collodi scostato
all’improvviso la cortina del mondo quotidiano per svelarci in
un estatico istante una capretta di lana turchina ritta su uno
scoglio in un mare sconvolto?
Solenne, strana incarnazione della Fata o Sapienza, essa non può
nascere che da una verace conoscenza.
Per la lettura avrei due suggerimenti stravaganti ma proficui.
Il primo è una banale lettura allegorica: Pinocchio è
l’emblema del fantasticare. D’accordo, è assai più d’un emblema,
è un simbolo, ma un simbolo è fatto di una miriade di possibili
allegorie e questa, di Pinocchio come personificazione
del fantasticare, dà buoni frutti se messa all’uso proprio di
ogni allegoria, tradurre le vicende del racconto a una a una in
una moralità. Vediamo: utopistica, monotona e capricciosa,
testarda e svogliata è la fantasticheria, chi voglia crescere
deve scrollarsela di dosso e un uomo che davvero sia tale è una
crescita ininterrotta. Occorre domare quel vizio, stroncandolo a
bastonate, costringendolo ad acquattarsi e tremare, legandolo a
un bindolo; alla fine ecco la meravigliosa metamorfosi, esso si
tramuta in alata fantasia, dipinge nella nostra mente visioni
eccelse, mostra "la Fata nel sogno".
Questo sogno visionario chiude Pinocchio e ha l’effetto
dei sogni terapeutici incubatori, redime mostrando un archetipo
redentore. È stato preparato da altre apparizioni dell’archetipo
durante il romanzo. Una di esse, cui già s’è accennato, ha i
caratteri d’una vera e propria visione misterica; Pinocchio,
facendo una nuotata, "vide in mezzo al mare uno scoglio che
pareva di marmo bianco; e su in cima allo scoglio, una bella
Caprettina che belava amorosamente e gli faceva segno di
avvicinarsi.
"La cosa più singolare era questa: che la lana della Caprettina,
invece di esser bianca o nera, o pallata di due colori, come
quella delle altre capre, era invece turchina, ma d’un color
turchino sfolgorante che rammentava moltissimo i capelli della
bella Bambina". In India quando un pittore o uno scultore di
cose sacre è chiamato a raffigurare la Natura madre di ogni
cosa, dipinge o modella una caprettina, aja.
Aja vuol dire tante cose in sanscrito, la sua radice
indoeuropea è la stessa del latino agere: "pascere,
guidare"; indica l’avanzare d’una squadra e il capo che la
sospinge, il raggio di luce, la luminescenza d’una pietra,
l’Ariete che porta avanti l’anno, oltre al capro e alla
capretta.
Il secondo suggerimento che faccio è una divagazione che
potrebbe perfino essere una supposizione. Che la "bella
Bambina", la redentrice sia Iside e nasca per un curioso gioco
della fantasia. Questo: figuriamoci una provincia toscana così
com’è, linda, fredda, acida e bonaria, con i suoi paesaggi
curati, i volti noti: tutto come lo conosciamo a menadito, e in
essa ambientiamo la vicenda d’un burattino che diventa ragazzo.
Ma con una stravagante condizione: la storia toscana si è svolta
come si è svolta, salvo per la parte religiosa: in Toscana ancor
oggi perdura il culto di Iside e a parlare della dea qualunque
bambino capisce a volo. Il risultato è Pinocchio.
Immaginiamo dunque che l’amore per Iside non cessasse attorno al
394 (in quell’anno il console romano che ancora celebrava
ritualmente in pianto la pasqua isiaca subiva le volterriane
risate del poeta che ghignava: " quis te plangentem non
risit? "). Immaginiamo: le edicole della dea si scorgono
ovunque, e quando si fa un eccezionale incontro con una donna
misericordiosa, si esclama che in lei Iside s’incarna; si
racconta a veglia la storia dell’uomo mutato in asino, che
soltanto la dea può salvare, comparendogli, com’è suo uso, in
sogno, a patto che egli versi tante lacrime (come quel tal
console del 394, come Pinocchio); come nel mondo antico,
si ritiene che Iside si manifesti inclinando i cuori all’amore
dei genitori; ci si rivolge a lei, come faceva Tibullo, per
esserne guariti dalle malattie. Ella ama le bestie come loro
madre e ancora si fanno le processioni primaverili che Apuleio
descrive, in onore di lei travestiti da animali (e quali
potrebbero mai essere se non i tipici che ci stanno intorno, il
grillo, il cane, la lumachina?). Ella è servita da animali. È
una madre, è una fanciulla.
Leggiadro, delicato, abissale è l’atto di leggere Pinocchio
a un bambino. Portiamo l’innocente tra le figure stesse che gli
si parerebbero dinanzi (nientemeno) in una radura sacra della
più selvaggia isola dei mari del Sud, nella capanna delle
iniziazioni che vi si troverebbe adagiata simulante la forma di
un pescecane. Introduciamo il piccolo al culto della Fata o
Signora-degli-animali (in questa la identifica Citati) e intanto
forse in questo stesso istante sulla grigia banchisa polare,
dentro una nuda, buia capanna di ghiaccio, rannicchiato su se
stesso, qualcuno proprio su di lei si sta allucinando fra
superbe girandole di colori fantastici e la ravvisa, come il
fanciullo a cui stiamo leggendo, nelle vertiginose metamorfosi
da fanciullina a fulgida dama, a regina di animali appunto,
mutevole misericordiosa ciclica come la matrice, come la luna.
Osiamo far di più. Strappiamo al fanciullo ogni terreno
conforto.
Chi non ha bisogno di una parvenza, d’una speranza di giustizia?
Chi non passa (perde) il suo tempo a dimostrare, a se stesso
soprattutto, di aver ragione, di essere nel giusto? Chi lo
farebbe se non credesse alla giustizia presente quaggiù? Solo un
dandy sublime sa esclamare: "Che cattivo gusto aver ragione!".
Collodi ci mostra come si fa a insegnarlo, con un tenebroso
sorriso, perfino ai bambini, raccontando loro che a denunciare i
ladri è naturale che si finisca in galera e quanto più si è nel
giusto tanto più ci si rimanga; che se si vuole un condono è
meglio farsi passare per criminali; che se si osa dare un
ceffone a un burattino ingiurioso, ce la vedremo col popolo e
con i gendarmi. Al tenero ascoltatore si rivela perfino che i
burattini del teatro delle marionette si danno "le zuccate della
vera e sincera fratellanza".
Questa non è che una serie di cenni agli archetipi che Collodi
aiuta a intuire.
Uno, il primo, vorrei estendere un poco.
Quello del Burattino.
L’archetipo agì fortemente su Kleist, cui dettò il saggio sul
teatro di marionette, e sul Goethe delle pagine sul teatro di
marionette nel Wilhelm.
La fonte occidentale più probabile è Marco Aurelio: "Ricordati
che colui che tira i fili è questo Essere celato in noi, è Lui
che suscita la nostra parola, la vita nostra, è lui l’Uomo ...
cosa ben più divina delle passioni che ci rendono simili a
marionette e nient’altro ".
Identificarsi con quest’Uomo è la meta spirituale.
Il burattino e l’asino sono versioni equivalenti del medesimo
archetipo: la fatica della vittoria sulla condizione puramente
naturale e meccanica. L’una usata da Marco Aurelio, l’altra da
Apuleio, al medesimo fine. Collodi adoperò entrambe. Faticosa
vittoria! Collodi mostra come per ottenerla si deve rinunciare a
ogni fede nelle istituzioni umane, liberarsi interamente dalla
illusione della giustizia e dell’utopia.
Nel mito norreno della creazione l’uomo è un pezzo di legno. Lo
animano gli dèi. Il legno è in greco la materia. Marionetta in
greco è thaúma e Platone nel Teeteto gioca sulla parola
dicendo che inizio del filosofare è thaumázein,
meravigliarsi. Il legno - la meraviglia - l’inizio del cammino
iniziatico, questa sequenza e questi bisticci platonici non ci
danno forse l’avvio di Pinocchio?
Così la conclusione dell’aurea operetta non è forse una
reminiscenza del Fedro, dove si osserva che il più eccelso
movimento, dunque la più alta vita, è quello autonomo, opposto
al movimento del burattino?
La città indù delle marionette di legno, rammentata da
Coomaraswamy nel suo saggio Spiritual Paternity and the
‘Puppet-Complex’, è governata dall’unico essere cosciente.
Coomaraswamy mostra come quel re e quella città siano analoghi
al re del Graal e alla fortezza del Graal e come quel re
coincida con l’essere misterioso per eccellenza, intimo a noi
più di noi a noi stessi, di cui parla Dante nel primo canto del
Paradiso, dicendo che " questi nei cor mortali è permotore" e "
questi la terra in sé stringe ".
La sua vita è irriferibile, perciò di Pinocchio non più
marionetta, ma liberato in vita, non c’è niente da dire.
Elemire Zolla